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Racconti e scritti vari

Eugenio Montale

Qualche volta ho sognato di vincere una maratona: partendo e mantenendomi in ultima posizione fino agli ultimi chilometri.
Dopo, sospinto da una forza soprannaturale, scattare come una freccia e giungere primo al traguardo.
Ma questo vorrei che mi succedesse ora, alla mia età, in modo da sbalordire tutti e occupare le pagine dei giornali.
Sarebbe un trionfo molto superiore a quello che qualunque altro poeta potrebbe augurarsi.

“Le mie corse”
di Mauro Covacich
(tratto dal sito www.maurocovacich.it)

Ogni sera attacco le mie strade, le sorprendo mentre tirano il fiato, si rilassano.
La gente mi guarda passare spaventata dalle finestre ai piani terra, con la bistecca sul piatto e la TV accesa.
Ogni attacco è una fuga: una fuga dal tizio che al telefono risponde col mio nome, dal tizio che era seduto alla mia scrivania fino a un istante prima.
Le mie corse sono scorrerie.

Tratto dalla prefazione al libro di Elio Altini, “Quando il sudore scende lungo il viso”
di Orlando Pizzolato

Correre impegna gambe, cuore, polmoni, ma lascia alla mente la possibilità di pensare, sia che si corra in compagnia sia che si corra da soli. I pensieri vanno più veloci dei passi e più lontano dei sentieri e delle strade che il podista solitamente percorre.
I pensieri che affollano la mente del corridore rappresentano l’aiuto ed il supporto che la mente vuol dare al corpo, quando il corpo è sotto sforzo, per far così passare i tanti chilometri che ci si prefigge di percorrere ad ogni allenamento. Quanto Elio ha riportato in queste pagine è il frutto di quei pensieri che danno la spinta e la forza per superare la fatica che il corpo sopporta per raggiungere un obiettivo: migliorare se stessi. Il riscontro tangibile che gli allenamenti determinano è dato dall’abbassamento dei tempi di percorrenza su determinate distanze: dieci chilometri, mezzamaratona, maratona ed anche la centochilometri. Giungere al traguardo sempre prima delle altre volte, più che prima degli altri, è una soddisfazione che ripaga dei tanti sacrifici affrontati giorno dopo giorno, negli allenamenti. Sentirsi più forti per aver migliorato una determinata prestazione è indubbiamente un aspetto positivo e ricercato dal podista, ma non è solo il traguardo cronometrico a dare la piena soddisfazione a chi corre.
Ogni miglioramento nei tempi di corsa sarebbe una gratificazione parziale se non venisse supportata dalla passione e dall’amore per la corsa. I pensieri del podista che corre e s’allena lo portano spesso ad immaginare di partecipare a grandi competizioni, a tagliare traguardi mai raggiungibili nella realtà. Queste immagini fantastiche lo accompagnano nei tanti chilometri e gli permettono di dare una risposta alle gocce di sudore che calano sul viso.
Dai pensieri si ricava la forza che convince tanti di noi ad alimentare l’ardore delle proprie fantasie sportive, e ci si convince di tentare di far qualcosa di sempre più stimolante come ad esempio fare una maratona, ma anche percorrere cento chilometri. Una distanza, questa, che mette paura anche a quelli che sono abituati a sentir parlare di chilometri, e della cui difficoltà ci si rende conto quando in allenamento i muscoli qualche volta protestano. Ma una sfida è una sfida anche se ti chiedi “ma chi me lo fa fare”, pensando che il primo è già al traguardo quando sei ancora a metà strada, da solo con i tuoi pensieri, con il rumore dei tuoi passi sull’asfalto e il sudore che cola lungo il viso. E quando hai raggiunto anche questo traguardo senti comunque di non essere arrivato fino in fondo alla tua strada.
Correre dà sempre nuove emozioni, sia che lo si faccia con obiettivi agonistici sia che si corra senza nessun motivo in particolare. Correre è piacevole, così tanto da non farti sentire il disagio della fatica. Ed è bello condividere con altra gente la stessa passione.

Tratto dal libro di Elio Altini, “Quando il sudore scende lungo il viso”

“Ode al valoroso guerriero”
Gelindo, a Seul sei stato guidato dal dio della corsa, un dio che ti ha portato sul gradino più alto del podio, un dio che ti ha fatto arrivare in solitudine allo stadio olimpico, un dio che ti ha fatto sentire le note dell’inno di Mameli, mentre il cuor tuo palpitava ancora incredulo.
Gelindo, la leggenda racconta che sei stato portato a braccia fino allo spogliatoio, che la premiazione è stata rimandata, perché le tue gambe non riuscivano a raggiungere il podio nei tempi programmati.
Gelindo, la leggenda racconta dello stupore di Orlando, che non credeva ai suoi occhi, vedendo in quali condizioni avevi finito la gara.
Gelindo, da quel giorno, in ogni allenamento si parlava di te, da quel giorno, quando ci si incontrava era tutto un “Hai visto Gelindo?”, “Cosa ne pensi di Gelindo?”. Da quel giorno ci si parlava attraverso di te.
Gelindo, da quel giorno tu eri il più grande!
Quando gli atleti del giro della nazionale venivano a correre in provincia, e lasciavano trapelare qualcosa di te, le nostre orecchie non erano altro che per te. Di te si diceva che non prendevi neanche i sali minerali, i reintegratori energetici. Di te si diceva che ti sottoponevi a degli allenamenti in altitudine che per altri non erano neanche immaginabili. Di te si diceva che se un giorno ti fossi rotto, nessuno sarebbe stato in grado di aggiustarti. Di te si diceva che eri troppo grande, troppo grande anche per i medici.
Venti giorni prima di Barcellona, hai corso un diecimila in altitudine, a duemila metri, in ventinove minuti, eri in gran forma, ma a Barcellona la sorte ti è stata avversa. Davanti a te c’è stata una caduta e tu, per evitare l’impatto, hai fatto un brusco movimento, gli equilibri muscolari si sono alterati, hai avvertito dolore… hai stretto i denti… hai continuato… ma quando la gara è entrata nel vivo, hai dovuto arrenderti.
Gelindo, a Barcellona una maledetta freccia ti ha colpito nel tallone. Dopo quella giornata nera, non hai più corso maratone, forse sentivi che il dio della corsa ti aveva lasciato.
Da allora sei ritornato uomo, hai partecipato a qualche garetta, hai presenziato a qualche manifestazione sportiva, sei salito in cattedra per dare consigli ai maratoneti.
Non hai dato l’addio alle corse, il tuo addio è stato Barcellona, a Barcellona hai lasciato le spoglie divine, a Barcellona sei ritornato uomo.
Gelindo sei stato immenso!
La leggenda racconta che a Seul, mentre ti allenavi per la maratona olimpica, facevi il burlone facendo finta di andare a sbattere contro i semafori, oppure che ti sdraiavi per terra simulando un malore. Gelindo, hai fatto ridere tutti. Gelindo ci hai preso in giro tutti.
Gelindo, ricordo il tuo terzo posto ai Mondiali di Roma quando, dopo l’arrivo, ti inginocchiasti per baciare la pista. Qualcuno parlò di retorica, non aveva capito il tuo gesto. Quel bacio era un ringraziamento al dio della corsa, quel dio che a Seul hai ascoltato anche quando l’istinto e la ragione ti dicevano altro!
Dopo Seul hai rivinto l’Europeo, hai trionfato a Boston, nella classica delle classiche, in una giornata calda e con il vento contrario hai stabilito il nuovo record italiano. A Boston, in condizioni ideali, avresti frantumato il record del mondo!
A Barcellona tutti ti aspettavano al varco. Barcellona era il cerchio di fuoco per farti diventare il più grande di tutti i tempi, per farti sedere vicino agli dei, per farti vivere sull’Olimpo.
Quel giorno sei stato trafitto da una maledetta freccia, onore a te valoroso guerriero, onore a te uomo dalla ferrea volontà, onore a te.

“NYC. MARATHON, per vedere se è così difficile morire”
di Mauro Covacich
(tratto dal sito www.maurocovacich.it) - «Panorama», 12 novembre 1999

Stiamo tutti aspettando il dolore. Non vediamo l’ora di sentirlo, dentro i muscoli, nell’intestino, nel cervello. Già quest’attesa è l’anticamera della sofferenza. Siamo qui da un’ora su questo maledetto ponte dalle ali bianche, transennati in trentamila ognuno nello scaglione della propria prestazione stimata: il mio è quello delle tre ore e dieci. 42195 metri a un ritmo di 4 minuti e mezzo al chilometro: niente per i cavallini keniani che vinceranno, abbastanza per subire la frusta dell’orologio, per dare una disciplina al sacrificio. L’olandese che ho accanto si è liberato dell’ultimo pile prima di essere deportato sul ponte e adesso sta morendo di freddo. Verrazzano shit, dice. Poi, sorry, tira fuori l’occorrente dai pantaloncini e mi orina sulle scarpe. Io ho ancora addosso la tuta - l’abbandonerò dopo il ponte, in omaggio ai barboni - ma i denti li batto lo stesso. E’ il freddo, e la paura di questo cielo di piombo che mi schiaccia insieme alla mia mandria disperata. Abbiamo scelto in trentamila questa mattina di novembre e questa vecchia città per correre verso l’ignoto. Ed ecco finalmente lo sparo, e il rumore sordo della mandria che cerca davanti ai piedi giusto lo spazio per mettersi in moto.
Davanti, i cavallini keniani sono già a tutta. Nella bolgia sento voci concitate di italiani che si passano maltodestrine, ma ormai non c’è più tempo, ormai si va. Sento il corpo troppo acceso. Milioni di watt sparati tutti in una volta, come per liberarsi dalla paura, come per scappar via dalla colata di carne umana che mi incalza, come per fuggire dal mondo, da tutto: non poteva che essere così il primo chilometro. Quelli che sono venuti per la passeggiata folcloristica non sono ancora partiti, partecipano alla rappresentazione teatrale più simbolica del giro di boa millenaristico ma non hanno capito di che si tratta veramente. Eppure anche loro appartengono a quest’umanità fuggiasca che si travasa da un’epoca all’altra: nessuno di noi sa cosa c’è di là, ma intanto gli va incontro correndo. Sento il cuore fuori giri, cerco di rallentare, e intanto penso alle immagini che trasmetterà l’elicottero che ho sulla testa: miriadi di lemming lanciati incontro al suicidio, uomini e donne in canottiera spinti da una forza viscerale verso un nuovo inizio. Il ponte lascia il cielo e picchia verso i palazzoni di Brooklyn. Adesso che non c’è più il vuoto sotto, l’eco delle scarpette sbattute sull’asfalto è cambiato: prima era una grandinata assordante, ora è un ticchettio secco, quasi una campionatura da musica elettronica. McGuinnes Boulevard.
Sui marciapiedi la gente urla e fischia tutta eccitata. Nel mio gruppo riconosco l’olandese, ci sono anche gli italiani delle maltodestrine e qualche russo. Melting-pot di autolesionisti, penso. Chissà quanti di noi resteranno fedeli alla loro proiezione cronometrica. Chissà quanti svaccheranno in tempi ridicoli. Chissà quanti finiranno in ospedale.
Il Queens è seminato di rock band. Pensano di incitarci con le loro schitarrate ma io sento solo le trombe dell’apocalisse. Sono circondato da disperati come me, che scappano incontro al Nuovo. New York è la strozzatura che separa il prima e il dopo della clessidra: noi ci sgraniamo in quel buco, lasciando il vuoto di ciò che è stato per riempire quello che ci aspetta. Le schitarrate comunque ci tengono compagnia fino al terzo ristoro.
Chilometro 15. Bevo più che posso ma il freddo del gatorade in pancia mi fa desistere subito. La macchina sta andando a regime, ma ho le mani congelate dal vento e non mi va di sentire altre parti del corpo poco meno che bollenti. Tanto più che adesso cominciano le salite.
Lungo il percorso si aprono vastità immense, slarghi di cui non si scorge la fine, incroci come portaerei montate l’una sull’altra. La barra rovente ha già cominciato a farsi sentire: è un dolore che mi trivella il gluteo destro e si irradia nel lombo, è una specie di contrattura che non sono mai riuscito a guarire e con cui alla fine ho imparato a convivere. E’ la tortura attorno alla quale avvolgo la mia resistenza nelle corse lunghe. Ormai la chiamano così anche i miei compagni di allenamento. Hai la barra?, mi chiedono quando si accorgono delle mie smorfie. Dove sei, Maestro? Dove sei, vecchio Mud? Avrei bisogno del vostro trenino, adesso. Chi mi porterà fino a Central Park?
Al Queensboro Bridge scelgo la terapia d’urto. Attacco il gruppetto contro ogni ragionevole consiglio proprio sul ponte. Ottocento metri impennati come la rampa di un garage. Forse, arroventandola di più ancora, la barra si scioglie, chissà. In cima, Manhattan mi viene addosso come un enorme poster di se stessa. E’ la cosa più commovente che abbia mai visto. Vorrei abbracciarla e baciarla tutta. Sento scosse di adrenalina sotto le unghie e alle radici dei capelli. I muscoli bruciano per lo scatto sul ponte. So già di aver sbagliato. Per qualche minuto l’emozione non mi farà sentire la fatica, ma poi la stanchezza verrà come sabbia negli occhi e, con lei, la muta di cani che ho seminato.
Vedo il canale di luce della First Avenue proiettato all’infinito: sei chilometri tutti in salita. Ne ho fatti ventisei e sono ancora in tabella, ma la barra rovente è sempre lì che perfora il gluteo. Di dimenticarla non c’è verso, a ogni passo la sua punta mi tocca il cervello, lo tiene costantemente sul dolore. Decido di provare a identificarmici: io sono la barra, il male è un bene e io sono quel bene, trivello me stesso perché è giusto così. Questa è la disperazione del benessere e io sono come quei disperati, ingozzati di aminoacidi ramificati a mille lire alla pillola, che mi stanno inseguendo. Eccomi barra rovente, penso. Quando non ne posso proprio più, mordo forte le labbra e il gusto del sangue mi aiuta.
Chilometro 31: la soglia del maratoneta. Da qui in poi di glicogeno, nei muscoli, non ce n’è più una goccia e l’energia te la devi inventare. Qualcuno del gruppo mi ha passato - una ventina in tutto - ma non l’olandese che spero sia morto. In un punto dove non c’è pubblico, uno scandinavo o giù di lì se ne sta seduto con i piedi insanguinati in mano. Guarda le scarpe, diventate marrone per il siero delle vesciche, e aspetta che vengano a salvarlo. Sullo sfondo ha i casermoni rossi del Bronx, il più bel ghetto del mondo.Le gambe mi stanno piano piano abbandonando. Scaricano sempre più forza sull’asfalto e sempre meno ne ricevono in cambio. Adesso mi accorgo che ho cominciato a zoppicare. Doveva finire così con la barra. Quando attraverso Harlem mi pare che tutti quei bastardi che applaudono siano scesi dai loro tuguri solo per vedermi in questo stato. Il dolore mi blocca tutta la parte destra del corpo, fino alla spalla. Non riesco neanche più a fare la traduzione dalle miglia. Una cosa è certa, l’andatura è crollata, sto correndo più lento di almeno un minuto al chilometro. Eppure raggiungo via via disgraziati che si trascinano peggio di me. Altri mi passano sibilando come pentole a pressione. Sembriamo dei feriti in fuga. Feriti del niente che sono stati finora, in anticipo sul capodanno epocale, ingordi del niente che verrà.
Dopo la passerella umiliante sulla Fifth Avenue, Central Park mi inghiotte nella sua macchia gialla. La gente torna ad ammassarsi dietro i cordoni. Mi pare di sentire la sana retorica americana dentro quelle teste: la più grande fatica a cui un uomo possa sottoporsi spontaneamente - applausi. Anche il bosco mi sembra preso nella parte. La barra ha conquistato tutto il corpo. Rallentando, sono diventato un unico pezzo di ghiaccio. Il dolore lotta col freddo, vuole dominarmi da solo. Ma l’arrivo è alla fine di questa discesa e questa folla di bastardi pare proprio che mi voglia bene. Mi sospinge con i suoi fischi e i sorrisi e gli urli. Eccomi al Columbus Circus. Distinguo già le divise degli organizzatori dietro lo striscione del traguardo. Sempre più chiare, sempre più grandi. Sono proprio le mie gambe queste due pietre che mi portano di là. Sì, sono proprio loro. La gioia mi spacca la testa. Anch’io vi voglio bene, brutti bastardi. Cristo, sto piangendo come un vitello.
Se pensate che l’esperienza della morte sia la più autentica perché non potete farla da vivi, be’, vi sbagliate: io adesso un po’ so che cosa significa morire.

“Zatopek”
di Mauro Covacich
(tratto dal sito www.maurocovacich.it)

Emil Zatopek attaccava sempre. Era il suo stile di corsa e di vita. A Londra, nel ‘48, aveva già vinto i Diecimila. Alle Olimpiadi di Helsinki si ripetè e aggiunse anche la vittoria sui Cinquemila. Trent’anni, tre medaglie d’oro in due olimpiadi, re incontestato della pista. Avrebbe potuto essere soddisfatto, e invece quello per lui diventò un problema. Chi posso attaccare adesso? Cosa posso attaccare? Che ovviamente significa prima di tutto: come posso attaccarmi? La questione non durò più di tre giorni. Zatopek non aveva mai corso la maratona, ma decise di iscriversi alla gara. Non avendo un’idea precisa del ritmo che avrebbe dovuto tenere, si aggregò al gruppo di testa e osservò gli altri. Al ventesimo chilometro chiese al primatista mondiale Jim Peters se il passo era buono abbastanza. L’inglese gli rispose stizzito: “No, è troppo lento”. Al che Zatopek pensò bene di aumentare l’andatura. Rimase in compagnia del solo Gustav Jansson. Al rifornimento lo svedese prese una fetta di limone. Zatopek tentò di imitarlo ma non fece a tempo. Qualche chilometro più tardi anche Jansson fu costretto a staccarsi e Zatopek pensò fosse a causa del limone, così concluse la maratona senza bere né mangiare alcunché, com’era abituato a fare nelle gare in pista. Vinse in 2h23:03, record dei giochi olimpici, conquistando una tripletta - Cinquemila, Diecimila, Maratona - che resterà per sempre nel guinness dei primati. E adesso chi attaccare? Dove spendersi anima e corpo? Nel ‘56 a Melbourne corse la maratona con un’ernia all’addome e arrivò sesto. Nella primavera del ‘68, colonnello dell’esercito cecoslovacco, corse contro i carri armati sovietici. Attaccò quelli, attaccando la parte sbagliata della sua divisa. Sin dalla prima ora si schierò a fianco di Alexander Dubcek e ne pagò le conseguenze, dimenticato nell’ombra fino al 22 novembre del 2000, giorno della sua morte.

Correva tutto sbilenco, la bocca spalancata, la smorfia da lottatore stampata in faccia. Correva come se stesse per scoppiargli il cuore da un momento all’altro e come se a quella stessa morte stesse scappando a ogni passo. Strabuzzava gli occhi, ciondolava la testa in modo impressionante e, invece di morire, vinceva. Non ho mai visto un eroe più umano, un eroe meno eroe di Emil Zatopek. Forse solo Ettore gli si avvicina un po’. Ma vuoi mettere gli allenamenti di Emil? Faceva più di venti chilometri al giorno, alternando 400 metri veloci e 400 lenti (è sua l’invenzione dell’interval-training). Si allenava di notte, usando una torcia elettrica per illuminare il percorso. Indossava gli scarponi delle marce militari per sentirsi più leggero con le scarpette tecniche il giorno della gara. Pensando che potesse risultare utile un lavoro coi pesi - un innovatore anche in questo -, cominciò ad allenarsi portando la moglie a cavalcioni. Si procurò una terribile ernia che non gli impedì di arrivare sesto alla maratona olimpica di Melbourne del 1956. Con la stessa grinta con cui combatteva in gara, Zatopek si è battuto contro il regime sovietico, quando, da ufficiale dell’esercito ceco, avrebbe anche potuto trarne vantaggio.

“Il maestro”
di Mauro Covacich
(tratto dal sito www.maurocovacich.it)

Il maestro si chiama Andrea Busato.
Nella primavera del 1993 avevo cominciato a fare jogging per dimagrire, non sapevo ancora cosa fosse veramente la corsa, non sapevo che il jogging e più in generale il fitness fossero l’esatta negazione del running. La sera che Andrea è venuto a prendermi per il primo allenamento e mi ha trovato in giacca e pantaloni di K-way, mi ha detto: “Togliti tutto e mettiti le cose più leggere che hai. Se vuoi sudare tanto, basta che fai più strada”. All’epoca correvo circa quattro chilometri al giorno: quella sera ne abbiamo fatti almeno otto. Da allora non ho più smesso di seguirlo.

Andrea Busato non è un filosofo, né uno scrittore: è il maestro per antonomasia. Considerando che la maratona è un’arte marziale - fidatevi, è così, lo sport non c’entra - Andrea rappresenta per me l’officiante della mia iniziazione all’età adulta, l’uomo che mi ha insegnato il piacere dell’anossia, della massima frequenza cardiaca, del dispendio, dello spreco energetico, in una zona del mondo in cui ogni microazione dev’essere finalizzata a produrre ricchezza. Pur essendo timido, mite, sulle prime non particolarmente carismatico, Andrea è in grado di smuovere montagne con l’entusiasmo che mette nelle cose. In meno di un mese ha organizzato un corso di running a cui si sono iscritte più di cento donne. Alla faccia dello scarso carisma.
Il fatto è che non è facile seguire Andrea (altri poi, e non lui, hanno tenuto quel corso). Essendo letteralmente ossessionato dall’incubo di fare meno fatica del dovuto, tende a tenersi sempre più veloce rispetto all’andatura prevista in tabella, con il risultato di massacrare se stesso e - involontariamente, s’intende - anche chi si allena con lui. Se la tabella oggi dice Ripetute a 3.45, lui per sicurezza le calibra sui 3.35. Se la tabella oggi dice 50 minuti di Lento, lui fa (e fa fare!) un’ora di Medio. Consapevole di tutto ciò ma incapace di porvi rimedio, un giorno Andrea mi ha confessato che sa già cosa vorrebbe venisse scritto sulla sua tomba: L’UOMO CHE NON CONOSCEVA IL LENTO.

“La città bambina”
di Mauro Covacich
(tratto dal sito www.maurocovacich.it)

Avanzo a quattordici all’ora nel primo buio del pomeriggio. Tre passi al secondo, duecentoquaranta metri al minuto, quattordici chilometri all’ora. E’ la mia velocità di crociera e in questo punto senza marciapiedi sento nitido il metronomo delle scarpe sul ghiaino. Esco a correre ogni sera e ogni sera la corsa entra in me. Lava tutto quello che la giornata ha imbrattato. Scorre dentro e lucida le pietre dei pensieri più grossi. E’ un fiume che bevo per intero, con l’umidità, il fumo delle macchine, la puzza dei concimi. Prima di guadagnare l’aperto della campagna devo fronteggiare ancora qualche minuto di traffico. Fronteggiare è proprio la parola che cercavo, perché corro in senso contrario alla direzione di marcia, andando incontro agli anabbagglianti, offrendo la mia faccia e le righe catarifrangenti della mia pettorina al mondo che rientra.
Sul mio stesso bordo strada si avvicina una sagoma complessa. Individuo in controluce un cane, un guinzaglio, una donna non giovane, mi pare, e qualcosa come una bacchetta o un frustino. La sagoma cammina scompostamente, sembra una macchia di Rorschach in movimento nell’alone lattiginoso dei fari, ma è chiaramente una signora a passeggio col cane. E’ strano solo quel frustino, quel tocco agreste, mandriano, in mezzo all’urbanissimo caos di Viale Grigoletti. Per frustare chi, cosa? La donna è vecchia, adesso lo vedo bene. E impugna forse l’unico reperto fossile di tutto ciò che è stata. Solo il gesto è rimasto, dell’era delle vacche. Non le vacche, non la casa con la stalla. Anche il cane, smilzo, anfetaminico, moderno, non è certo un cane pastore. Quei due sono scesi da un appartamento qui intorno. Siamo tre cose fuori posto su questo bordo strada. Senza contare la bacchetta. Un attimo prima di passarmi accanto, lei dice una frase che dal tono potrebbe sembrare di incitamento, solo che le parole sono: “Via! Via! In Zanussi!”
La Zanussi è a un paio di chilometri alle mie spalle, già oltre le Colonne d’Ercole del Garage Venezia, nel niente lampionato che precede la città. E’ lì che mi vorrebbe la vecchia, a stoccare lavatrici, a consumare le mie energie di uomo sano in maniera produttiva, redditizia, per me e per la comunità. Watt e watt di muscolatura adulta, sprecati lontano dalle fabbriche, lontano dagli uffici, lontano dai campi, watt immorali. E’ questo che vede la vecchia con la bacchetta, mentre la incrocio. La Zanussi, acropoli eccentrica di una città bambina, sito fondativo, ara sacra, miracoloso giacimento attorno al quale i pionieri si sono raccolti e hanno urlato qui miniera! La Zanussi, sineddoche di guerra vinta dal lavoro contro la miseria, di benessere sudato, conquistato. Sarebbe lì la mia ultima chance correzionale, il mio riformatorio.
Ma io proseguo verso il centro. Percorro la mia strada preferita, Via Oberdan. Non c’è nessun posto che renda meglio la gioiosa pubertà di Pordenone, nessuno meglio di questa palestra per architetti. Eccolo il pionierismo, la banca coi pinnacoli arabeggianti, le assicurazioni con la cancellata venusiana, il condominio a forma d’Arca di Noè, la gelateria con la fontanella caleidoscopica e subito dopo, come un dente guasto non ancora estratto, una vecchia casa contadina con giornalaio e rivendita di telefonini. Ho sempre amato questa libertà pasticciona. Pordenone si è vestita in fretta. Fino all’altro ieri era nuda e non aveva specchi. Venezia è lontana, Trieste pure. Da Udine non ha mai voluto copiare. E allora è uscita così: le scarpe col tacco, la tuta da ginnastica, il rossetto fucsia, il cerchietto in testa. Via Oberdan è lo Strip di Las Vegas, senza il Kolossal festoso dei casino ma con lo stesso deserto intorno. E’ nata dal niente, piccolo azzardo del Nevada friulano, e solo ciò che è stato niente può diventare tutto.
Volo tra i taxi davanti alla stazione. Salto la valigia a rotelle di un tizio con l’impermeabile troppo bianco. Rispetto al mondo fermo della pensilina la mia velocità è quella significativa di un ladro, di uno scippatore, insomma di uno mosso da un’urgenza effettiva - il tizio mi guarda scappar via con un certo sospetto. Mi infilo nel sottopasso nuovo di via Cappuccini al fischio di un Intercity che arriva, scendo in picchiata il ripido che porta al laghetto della Burida e la città è già un ricordo, minuscola Down Town ingoiata con le sue lucine e i suoi rumorini dalla quiete gigantesca dei campi. Mi bastano otto minuti da casa per ritrovarmi solo col mio fiato, su questa immensa bocca silenziosa. Pordenone è per me soprattutto la rapidità con cui smette di esistere, il breve passo dopo il quale scompare in questa bocca. Città bambina tenuta sulla lingua rasposa della campagna.
Ora, di nuovo, sento solo il metronomo delle mie scarpe. Ogni tanto qualche cane e la televisione delle ultime case. Tiro dentro l’odore di stufa, che non farà bene ai polmoni ma è buono. Abbandono la civiltà asfaltata del bordo strada e subito lo sterrato mi prende con sé e mi trascina via, al largo. Corro alla cieca. Sistema propriocettivo, si chiama. E’ la sapienza delle caviglie, la loro capacità, acquisita anche a suon di storte, di dialogare con i sassi e le pozzanghere. Qui smetto di far fatica. Sto al traino del sentiero. Ondeggio, beccheggio. Dire quattordici all’ora non va più bene, adesso. Non perché la velocità sia diminuita, semplicemente perché bisognerebbe misurarla in nodi.
Intorno, solo stoppie, increspatura pointilliste di un’oscurità più scura del cielo, curva dove curva la Terra, continua ben oltre l’orizzonte. Ecco il mare. Sì, il mio mare. L’ho portato qui. Non è stato facile trovargli un altro golfo. Per la bora mi devo ancora attrezzare. Dopo, di Trieste non mi mancherà niente. Anche la frazione che piantona i campi ha il nome giusto. Portovjeli. Porto vecchio perché là sotto, dietro i pioppi, si aggira il Noncello. Ma a me questo non interessa. Non è il fiume a farmi contento, è il pensiero, l’illusione che i contadini di quelle quattro case una volta fossero marinai.
Tengo a sinistra ancora per due minuti il puntino luminoso della Fiera Nuova, poi lascio che la mia stella polare mi butti l’ombra tra i piedi mentre riconquisto, sul lato opposto dal quale sono entrato, la riva infangata della Provinciale. E’ strano, all’aperto non è mai buio abbastanza. Non è mai così nero da non potersi permettere un’ombra lievemente più nera. Anche qui, sotto questo cielo notturno e rasoterra. Mai vista una città col soffitto tanto basso: nei mesi d’autunno - oggi siamo il nove ottobre - sembra coperta da un tendone militare, e c’è sempre il furbo (il Furbo?) che ci si siede sopra. Eppure, neanche stavolta il buio è proprio buio.
Centoquarantacinque, centocinquanta pulsazioni al minuto, sotto i primi lampioni della pista ciclabile do un’occhiata al cardiofrequenzimetro, smetto di navigare, riprendo il controllo dell’andatura, mi ricollego al tempo presente, accordo il flusso delle macchine, delle biciclette, dei pedoni al flusso della vita.
Ritorno. Porcia, Rorai Grande, Rorai Piccolo, la periferia postmodern, coi lacerti di affresco tra i gialli canarini e lo spatolato. Una ragazza esce dalla panetteria con in mano una baguette. La panetteria è piena di faretti e ha il tetto pieno di parabole. La baguette è nuda, senza sacchetto, perché la ragazza è stata a Parigi, o magari è parigina, e insomma pare che dica so come si fa, che ti credi?, siamo in provincia, ma la metropoli non è lontana. Passando, le sorrido. Lei mi guarda di brutto e tiene il muso fino in macchina. La metropoli è già qui, in queste periferie di un centro che non c’è, nelle ex contrade abitate da aspiranti parigine e da giovani operai ghanesi, nei parcheggi con la pittura nuova e un sacco di Fiat salvate dalla rottamazione. Qui, in mezzo alle gloriose Ritmo, e alle 131 verde pisello, ricamo gli ultimi chilometri prima della doccia. L’allenamento è quasi finito. Ecco laggiù il semaforo di Viale Grigoletti, il semaforo della vecchia col cane. Tranquilla, signora, tenga a cuccia la bacchetta. L’uomo sudato in mutande toglie il disturbo.

… “E poi c’era la corsa campestre.”
di Ian McEwan

Brano tratto dal racconto breve “Fatto in casa” della raccolta “First Love, Last Rites” edita nel Regno Unito nel 1975 ed in Italia pubblicata dalla Einaudi per i Tascabili con il volume “Racconti - Primo amore, ultimi riti. Fra le lenzuola”.

Raymond era un corridore passabile, ed era uno dei dieci scelti per rappresentare la scuola alle gare di contea.
Io ero un assiduo frequentatore delle gare. In realtà non c’era nessuno sport che mi entusiasmasse come una buona corsa campestre, che mi divertisse ed eccitasse tanto.
Mi piacevano le facce tese e contorte dei corridori, man mano che risalivano il tunnel di bandiere e tagliavano il traguardo; i più interessanti erano quelli che arrivavano dopo i primi cinquanta o giù di lì, erano loro a metterci più impegno, a lottare fra loro come belve per assicurarsi la centotredicesima posizione.
Li guardavo barcollare sotto le bandiere e portarsi le mani alla gola in preda a conati, lasciar andare le braccia e crollare sull’erba, convinto di aver qui davanti a me lo spettacolo dell’umana futilità. Solo i primi trenta contavano qualcosa nella gara, e una volta che l’ultimo di loro era arrivato, il pubblico cominciava a disperdersi lasciando gli altri a combattere le loro battaglie private, ed era qui che si risvegliava il mio interesse.
Molto dopo che i giudici, i commissari e i cronometristi se ne erano andati io ero ancora vicino al traguardo, per godermi l’arrivo strascicato e sofferto degli ultimi concorrenti nel cupo tramonto invernale. Rialzavo quelli che cadevano, porgevo fazzoletti ai nasi sanguinanti, picchiettavo la schiena di chi vomitava, massaggiavo punte di piedi e polpacci colpiti da crampi, una vera e propria Florence Nightingale, con la differenza che per me lo spettacolo di questi sconfitti distrutti da una corsa completamente inutile era esaltante, ricco di un fascino bizzarro.
Aspettavo dieci, quindici, venti minuti in quel campo vasto e desolato, circondato da fabbriche, piloni, brutte case e rimesse, con un vento freddo che si alzava portando con sé le prime gocce di una pioggerella aspra, e come mi si librava la mente, come correva lontano lo sguardo quando, dopo aver tanto aspettato in quel cupo crepuscolo, improvvisamente distinguevo all’altra estremità del campo una macchia bianca zoppicante che arrancava verso il tunnel e misurava piano, con i piedi torpidi sull’erba umida, il suo microdestino di futilità assoluta. E lì, sotto il broncio del cielo metropolitano, come per unificare la complessa totalità dell’evoluzione organica e della volontà umana, e metterla a portata della mia percezione, la piccola macchia amebica lungo la distesa del campo prendeva una forma umana ma la sua meta non cambiava, continuava a barcollare con determinazione nel suo inane sforzo di raggiungere il traguardo.
Era la vita, la vita senza volto che si rinnova sempre e di fronte a cui, mentre la figura stramazzava a terra accanto al traguardo, il mio cuore si scaldava, il mio spirito si levava in un abbandono completo a una morbosa e fatale identificazione col processo cosmico della vita, il Logos.
- Tutta sfortuna, Raymond, - gli dicevo in tono allegro allungandogli il maglione, - andrà meglio la prossima volta -. E col languido sorriso e la triste consapevolezza di Arlecchino e di Feste, sicuro che è il Commediante, non il Tragico, ad avere la Briscola, il ventiduesimo Arcano la cui lettera è Than e il cui simbolo è Sol, sorridendo mentre lasciavamo il campo ormai buio, Raymond diceva: - Va be’, tanto era solo una corsa nei campi.”…

“La corsa”
di Tiziano Thomas Dossena

Aveva già percorso molti chilometri, o forse no. Il sole era implacabile, così diverso da quello della sua infanzia che lo avvolgeva nei suoi tiepidi raggi protettivi, dandogli una immensa, inimitabile sensazione di benessere. Il sudore avrebbe dovuto aiutarlo nel contenere l’enorme calore che pervadeva ogni sua fibra, ma a lui pareva che fosse solo una tortura: difatti, rivoli abbondanti s’insinuavano nei più intimi anfratti del suo corpo, causandogli notevole fastidio.
A tratti si ritrovava a correre con gli occhi chiusi per evitare che il sudore li penetrasse, rinnovando l’estremo bruciore. Il vento, anziché portargli refrigerio, lo irritava ancor più, accanendosi ad infrangere minuscoli oggetti di indecifrabile natura sul suo volto.
Ecco che all’improvviso sembrava che calasse, riportando quell’insolito martellare alle tempie, per poi tornare ancor più penetrante e rubare l’ultima goccia di saliva dalle sue labbra ormai arse dal sole. I piedi gli dolevano, ma davano la sensazione di avere ottenuto una propria autonomia di movimento. C’era in essi una perseveranza nel seguire l’ordine originale di questo suo tormentato cervello che andava ben oltre ogni aspettativa. Sentiva, o almeno gli pareva di sentire, una sempre più marcata assenza di contatto tra le proprie estremità ed il resto del corpo.
Non sarebbe riuscito a definire precisamente quella sensazione di distacco senza ricorrere ad analogie astruse. L’uomo sulla luna, con la sua assenza di gravità, era la prima immagine che gli venne in mente, ma ben presto ad essa si accavallarono immagini confuse di profondità marine, tuffi esplosioni ed alfine il ricordo del proprio cane che lo rincorreva e gli mordicchiava le stringhe delle scarpe. La mano si spinse istintivamente verso il cane e l’immagine svanì.
Ma rimase la sensazione delle scarpe slacciate. Non aveva il coraggio di guardare i propri piedi che riuscivano ad inviare questo messaggio confuso al resto del corpo. Come poteva non avvertire più la loro presenza ed allo stesso tempo sentire la stringa battere inesorabilmente contro essi?
Nella confusione dei sensi gli parve inoltre che un dolore lancinante ai polmoni gli avesse precluso qualsiasi capacità di respirare e che nell’impeto della corsa il corpo riuscisse a funzionare in completa apnea. Ma si sbagliava. Il fiato aveva trovato anch’esso un suo ritmo e non rispondeva più né ai suoi tentativi di controllo né ai ripetuti spasmi bronchiali.
Il brusio che egli aveva udito finora si era alzato di tono e di volume al medesimo istante. Paura panico terrore. Il piede destro aveva ripreso ad inviare messaggi circa la presenza di un paio di stringhe, quasi a conferma della propria esistenza.
Il brusio aumentò notevolmente fino a diventare un rombo. Il sudore gli fece strizzare gli occhi una volta di più.
Alla loro riapertura vide tanta gente che gli veniva incontro gridando. Non capiva cosa dicessero, ma adesso era sicuro di una cosa, una cosa soltanto: aveva vinto!

“La Storia di Paavo Johannes Nurmi”
di Gustavo Pallicca
(tratto dal sito www.runners.it)

Dopo le non esaltante dimostrazioni organizzative offerte dai Giochi di Parigi e di St. Louis, i progressi fatti registrare dagli inglesi nell’olimpiade del 1908 trovarono conferma ed ulteriore miglioramento nel 1912 nella edizione affidata alle cure degli svedesi.
La forte tradizione sportiva di quel popolo seppe celebrare nel migliore dei modi lo spirito olimpico, prendendo spunto anche dalle affinità del mondo scandinavo con quello greco che esaltavano e davano grande importanza all’educazione del fisico. Affine al popolo svedese per cultura sportiva era la vicina Finlandia, una nazione povera e piccola che era stata nel 1300 assoggettata alla Svezia e poi oggetto di contesa fra questa e la Russia zarista che agli inizi del 1800 ne fece un suo granducato.
Ai Giochi di Londra del 1908 la Finlandia aveva tuttavia partecipato con una sua squadra autonoma, priva però di elementi di spicco, ottenendo una sola medaglia di bronzo nel lancio del disco (stile greco) con Venne Järvinen (m. 36.48).
Molto diversi erano stati i risultati ai successivi giochi di Stoccolma del 1912.
Il grande Hannes Kolehmainen, il primo dei “Flying Finns”, aveva colto tre vittorie sensazionali nella specialità del fondo che avevano avuto in patria un’eco straordinaria raggiungendo ogni più piccola comunità del paese dei laghi.
Le due medaglie d’oro nei 5.000 e nei 10.000 metri, prima storica doppietta nelle corse di lunga lena, alle quali se ne erano aggiunte altre due nella prova di “cross country” sui 12 chilometri, vennero accolte dai finlandesi come una vera e propria rivendicazione di un orgoglio nazionale costretto alla sudditanza straniera, e sicuramente contribuì a proiettare la Finlandia verso la conquista della sua indipendenza, che avvenne nel 1919.
Nella gara di cross Hannes conquistò anche l’argento con la squadra del suo paese ad un solo punto dai rivali svedesi, mentre nella prova a squadre (cinque concorrenti) sui 3.000 metri fu autore, in batteria, di una prima frazione strepitosa conclusa nel tempo di 8:36.8, nuovo primato mondiale e olimpico. Nonostante questa prova la Finlandia giunse al secondo posto dietro agli Stati Uniti e non si qualificò per la finale.
Dopo i Giochi di Stoccolma le vicissitudini della Prima Guerra Mondiale interessarono anche la Finlandia. Nel 1917 la caduta della Russia zarista vide contrapporsi in Finlandia una vera e propria guerra civile fra partiti contrapposti, che spianò la via all’indipendenza che giunse nel 1919.
Ma il seme gettato da Kolehmainen era caduto in terra fertile e presto avrebbe dato frutti straordinari.
La terra era quella di Turku, città portuale del Baltico, dove il 13 giugno 1897 nacque Paavo Johannes Nurmi, primogenito di un modesto carpentiere, Johan Fredrik, che venne a mancare nel 1910 alla soglia dei 50 anni, lasciando la moglie ed i quattro figlioletti in precarie condizioni economiche.
Per dare una mano alla famiglia Paavo, appena terminata la scuola dell’obbligo, si adattò a fare il ragazzo di fatica per conto di un grossista di Turku e gli storici ce lo descrivono impegnato a spingere un carretto carico di merce per le vie della cittadina fino alla stazione ferroviaria di Turku. Mentre il piccolo Nurmi “sgobbava”, le notizie delle gesta di Kolehmainen a Stoccolma facevano il giro della Finlandia, suscitando entusiasmi fra i giovani e facendo avvicinare molti di loro all’atletica.. Paavo crebbe con un carattere schivo e taciturno. Invece di partecipare ai passatempi dei suoi coetanei, preferiva appartarsi a correre nei boschi di betulle che circondavano Turku. In tempi successivi su questi primi approcci di Paavo con la pratica sportiva, nasceranno leggende che narravano di un ragazzo che si confrontava con le renne al galoppo su sentieri e praterie ricoperte di neve, dissetandosi con latte di lupa…!!
Nurmi era vegetariano (non è dato sapere se per scelta “forzata” o per convincimento) e tale rimarrà per sette anni, fino al momento in cui andò a Pori (1919-1920) per assoggettarsi a 18 mesi di servizio militare.
Nel 1914 Nurmi, diciassettenne, disputò la sua prima gara di un certo livello: i 3.000 metri ai campionati juniores del distretto di Turku, che vinse nel tempo di 10:06.5. E’ questo il primo risultato ufficiale che si conosce del grande fondista finlandese.
A differenza di molti talenti che venivano immediatamente gettati nella mischia delle competizioni, Nurmi ebbe modo di maturare e crescere atleticamente molto lentamente.
Nel 1920 i tempi erano maturi per vedere Nurmi proiettato sulla scena dell’atletica mondiale.
Il 28 maggio di quello stesso anno Paavo corse a Turku i 3.000 metri in 8:36.2, nuovo record finlandese, sei decimi in meno rispetto al tempo ottenuto da Kolehmainen a Stoccolma nella gara dei 3.000 metri a squadre, e solo tre secondi al di sopra del primato mondiale dello svedese John Zander (8:33.2 – Stoccolma, 7 agosto 1918).
In luglio, alle selezioni per la formazione della squadra olimpica per Anversa, Nurmi corse i 5.000 metri in 15:00.5, collocandosi al settimo posto nella graduatoria di sempre della specialità.
Pur non avendo alcuna esperienza internazionale, Nurmi affrontò con molto coraggio la trasferta in Belgio per disputare la sua prima olimpiade.
I Giochi di Anversa del 1920 riprendevano il discorso olimpico avviato da De Coubertin nel 1896, che era stato brutalmente interrotto dalla prima Guerra Mondiale, evento che aveva cancellato quelli previsti per il 1916.
L’olimpiade di Nurmi ebbe inizio il 16 agosto con la disputa della batteria dei 5.000 metri. Paavo corse nella terza dove si classificò al secondo posto (15:33.0) dietro all’italiano Carlo Speroni (15:27.6).
La finale si corse il 17. Nurmi condusse per gran parte della gara, imponendo il suo passo al resto del concorrenti, ma nulla poté contro lo sprint finale nel quale si produsse il piccolo francese Joseph Guillemot che chiuse la gara in 14:55.3/5 contro i 15:00.0 del finlandese.
Paavo vinse così la sua prima medaglia olimpica (argento), ma fece tesoro di quell’esperienza per convincersi che anche un fondista deve essere capace di sprintare, quando si presenta in un arrivo in volata.
Ma la rivincita di Nurmi non tardò a realizzarsi.
Il 19 agosto si disputarono le batterie dei 10.000 metri. Nurmi corse al risparmio nella prima giungendo secondo in 33:46.3 dietro al britannico James Wilson (33:40.2). L’oro dei 5.000, Guillemot, si aggiudicò la seconda in 32:41.6, mentre l’altro finlandese, Heikki Liimatainen con il tempo di 32:08.2 vinse la terza batteria e fece segnare il miglior tempo della fase eliminatoria.
In finale sembrò che Nurmi dovesse cedere all’alleanza stipulatasi fra Guillemot e Wilson che ad un certo punto avevano distanziato il piccolo finlandese di circa venti metri.
Ma Nurmi correndo sul “passo” gradatamente recupererò lo svantaggio e dopo un duello con il francese, che si protrasse per alcuni giri, nel finale la spuntò, pareggiando il conto con Guillemot ed andando a conquistare il suo primo oro olimpico.
La prova di “cross-country” sulla distanza di 8 chilometri si disputò il 23 agosto. Nurmi scese in lizza per la quinta volta in meno di una settimana e vinse la gara in 27:15.0 battendo lo svedese Eric Backman (27:17.6) e il connazionale Heikki Liimatainen (27:37.4).
Il sesto posto ottenuto da Teodor Koskenniemi permise alla Finlandia di aggiudicarsi la prova a squadre con 10 punti contro i 21 ottenuti dalla Gran Bretagna.
Paavo Nurmi uscì così dalla sua prima Olimpiade con lo straordinario bottino di tre medaglie d’oro ed una d’argento, che lo qualificò come l’erede più degno del grande Kolehmainen. Il cui mito fu rinverdito dalla sorprendente vittoria che il campione finlandese ottenne nella gara di maratona (km. 42,750) nel tempo di 2:32:35.8 davanti all’estone Jüri Lossman ed all’italiano Valerio Arri.
L’esperienza di Anversa fu molto utile per Nurmi che si impegnò ancora di più per migliorare la sua corsa ed il passo che lo avrebbe reso celebre. Da Anversa Nurmi cominciò ad allenarsi tenendo in mano il cronometro.
A Stoccolma il 22 giugno 1921 Nurmi ottenne il suo primo “mondiale” sui 10.000 metri staccando nettamente lo svedese Eric Backman. Il tempo del finlandese, 30:40.2 migliorò il 30:58.8 ottenuto dieci anni prima (16.11.1911) a Colombes dal francese Jean Bouin.
Fu quello il primo di una lunga serie di primati (29) ottenuti da Nurmi nel periodo che va dal 22.6.1921 al 24.7.1931, nelle più svariate distanze: dal miglio ai 20.000 metri.
A questi si aggiunsero i sei mondiali indoor ottenuti durante la tournée del 1925 negli Stati Uniti, ed i due nella staffette 4×1500 metri.

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Tratto dal bel libro “A perdifiato” (edizioni Mondadori):
di Mauro Covacich

“La maratona è un’arte marziale. Chi la corre compie una scelta estetica, non una sportiva. Lo sport non centra niente.
Resistere alla piu alta velocita possibile per una strada cosi lunga è la cosa piu bella che una mente umana possa produrre.
La mente non è il cervello, la mente è il sistema dell’uomo che pensa. La mente è la rete in cui il mio avampiede, il mio cuore, il mio glicogeno, i miei desideri, la mia memoria, tutto me stesso dialoga con tutto me stesso e con tutto cio che dall’esterno modifica o puo modificare me stesso.
Ecco, il mio corpo che pensa raggiunge il piu alto grado di bellezza nella maratona. Credo che ciò varrebbe anche se sapessimo volare.
Non ho mai visto niente di più bello di Paul Tergat che vomita il Gatorade in eccesso dopo il traguardo. Non ho mai visto niente di più bello dell’allungo di John Kosgey sulla Fifth Avenue. Niente di più bello di quei bastardi di masai con le ali ai piedi, niente di più bello di me stesso che muoio alle loro spalle”

“Lo sport non c’entra niente con la maratona. Un maratoneta non è uno sportivo, non fa sport. Un maratoneta pensa con il corpo e il pensiero ossessivo del suo corpo è: resistere per 42.195 metri a una velocita superiore a quella gia ottenuta. Immaginando il proprio miglior risultato come un unico avversario, sconfiggersi e il chiodo fisso del maratoneta.”

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